Il counseling aziendale si caratterizza per alcune peculiarità specifiche rispetto al counseling individuale extra-aziendale.
L’analisi della domanda non coinvolge solo il cliente (come nel counseling individuale), ma parte anche dai principali motivi che spingono l’organizzazione a voler introdurre un servizio di counseling nel particolare momento di vita aziendale (stato di crisi o di crescita?) e quali sono le attese rispetto ad esso. Occorre comprendere qual è la cultura organizzativa predominante, dove è concentrata la struttura di potere, le motivazioni e le aspettative sia verso il ruolo del counselor sia verso i benefici per il cliente. Soprattutto, occorre chiedersi quali sono i bisogni aziendali che il counseling può intercettare in modo integrato con i processi organizzativi già in essere, senza diventare un’appendice esterna. Infatti, se nel caso del counseling individuale il beneficiario coincide con il cliente finale, nel contesto aziendale il counselor si trova a lavorare ed interagire con differenti figure ma il committente resta comunque l’azienda che si aspetta un ritorno dall’iniziativa. Ne consegue che in quest’ultimo caso si crea una rete di relazioni almeno a 3 (counselor – dipendente – azienda) nella quale si inscrive l’intervento.
Una netta differenza tra il counseling individuale e quello aziendale è legata alle modalità di ingaggio dei clienti/dipendenti.
Nel primo caso è il cliente che, riconoscendo una situazione di disagio, è motivato al cambiamento e richiede l’intervento di un professionista; nel secondo caso è l’azienda che offre il servizio ai propri lavoratori. Tra le due modalità è facile intuire che ci sia un diverso grado di motivazione da parte del cliente e il counselor deve essere efficace nel coinvolgere i partecipanti facendo loro percepire il valore che può avere quell’opportunità.
Inoltre, un tema sensibile da affrontare è quello della privacy del cliente. Occorre chiarire e garantire riservatezza rispetto ai contenuti che vengono affrontati nei colloqui e che non saranno riportati all’esterno, evitando “triangolazioni” poco etiche con la committenza aziendale che potrebbe richiedere delle informazioni sul dipendente rispetto a quanto emerge negli incontri.
Tenendo ben presente la dimensione etica e deontologica, dunque, il counselor deve trovare il giusto equilibrio tra un bisogno da parte del cliente e pressioni di controllo da parte dell’azienda. Egli dovrà mediare tra il significato che dà al proprio ruolo, la condivisione alla quale si espone il dipendente e l’idea di cambiamento che ha l’organizzazione quando decide di iniziare un intervento del genere.
Sarà opportuno evitare che la confidenzialità si trasformi in richiesta di aiuto del cliente dentro l’organizzazione, così come concordare con il dipendente obiettivi che vadano contro l’organizzazione o i principi del counseling aziendale.