Nel counseling aziendale si abbraccia una visione in cui è l’individuo che può agire trasformativamente nel suo ambiente contribuendo esso stesso al cambiamento.
Così inteso, il counseling aziendale è un’occasione per comprendere meglio se stessi nel contesto lavorativo.
In altre parole si sta dicendo che l’intervento non può “dimenticare” del tutto la dimensione lavorativa e, al tempo stesso, può esplorare anche le connessioni con altri temi personali.
Questa scelta, non scontata, è giustificata da due principali motivazioni.
La prima deriva dal contesto: se il committente è l’organizzazione, occorre riportare l’intervento a dimensioni aziendali “note” e desiderate, come maggiore produttività, motivazione, retention, etc. Questo non vuol dire “garantire” attraverso il counseling aziendale un maggior coinvolgimento lavorativo dei dipendenti interessati, ma orientarsi verso ambiti di applicazione attinenti al lavoro, piuttosto che afferenti esclusivamente la sfera privata. Si tratta anche di focalizzare l’intervento su problemi personali che hanno influenzano negativamente le performance lavorative.
Su “cosa”, dunque, può focalizzarsi il counseling aziendale?
Dal punto di vista meramente logico possiamo individuare due continuum di azione:
- malessere versus benessere: oggetto dell’intervento può essere la risoluzione di un problema (per es. il rapporto conflittuale con il proprio capo) oppure lo sviluppo personale (riflettere su aspetti come la consapevolezza e la padronanza di sé o l’orientamento rispetto alla propria carriera);
- produttività versus intimità: il counseling può rivolgere l’attenzione verso temi legati al lavoro (per es. le incomprensioni con un collega) oppure verso aspetti del tutto personali (per es. scelte, cambiamenti, difficoltà inerenti la sfera privata); in altre parole, da una lato possono essere solo gli obiettivi di business a determinare l’area di intervento del counselor, dall’altro lato si può adottare una posizione centrata sulla persona che vede il counseling aziendale quasi come una pratica privata, svolta dentro le mura dell’azienda.
Personalmente non credo in una visione bidimensionale della vita umana e faccio fatica a credere che ci siano aspetti intimi che abbiano conseguenze solo personali e non influiscano nella performance lavorativa così come non ritengo che ne esistano altri che riguardino esclusivamente la crescita professionale dell’individuo senza aprire, al tempo stesso, un varco verso un’evoluzione anche personale. L’individuo, invece, è quanto di più complesso esista in natura ed è, soprattutto, profondamente connesso al suo interno e con l’ambiente che lo circonda. Anche quando si cerca di separare la sfera lavorativa da quella privata, non possiamo evitare di portare sul posto di lavoro i vissuti e tutte le dimensioni della nostra persona e quindi, secondo l’approccio del counseling, anche le emozioni, le speranze, le paure.
È assai probabile, dunque, che l’intervento di counseling verterà sia sulla dimensione interna dell’individuo, sia sul suo rapporto con l’organizzazione, sia sulle sue connessioni con il mondo esterno all’azienda. Vale, naturalmente, anche il viceversa: si pensi per esempio come fenomeni esterni quali la “crisi” abbiano conseguenze sociali, organizzative e individuali.
In tal senso gli ambiti di azione principali del counseling aziendale possono essere:
- il cambiamento (per esempio, assunzione di nuove responsabilità organizzative, trasferimenti di sede, rientro da congedo, etc.);
- la riflessione sulla propria crescita professionale stimolata dal career counseling;
- le difficoltà relazionali con i colleghi, la conflittualità, il team working, le abilità comunicazionali;
- le scarse performance rilevate, la capacità di prendere decisioni;
- la demotivazione rispetto al proprio lavoro;
- le abilità comuni;
- lo stress;
- la mancanza di concentrazione;
- l’assenteismo;
- la gestione del tempo.
